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pratali scrittore

PAESAGGI COME RIFLESSI IN UNO SPECCHIO DI LUCE

Negli ultimi quindici anni Massimo Pratali si è attestato su un genere pittorico, il paesaggio en plein air o anche eseguito nello studio ma con lo spirito del l’aprés nature, che ha costituito per lungo tempo la palestra e il cavallo di battaglia di schiere d’artisti desiderosi di incontrare dal vivo l’ambiente naturale e antropico, puntando sulla diretta restituzione dei caratteri più evidenti e distintivi di luoghi e climi locali.

È una tradizione assai radicata in Toscana. Diffusissima nel primo Novecento, quando era normale vedere i pittori al lavoro sur le motif, adeguatamente attrezzati di pennelli, tubetti di colore e tavolette ben levigate, l’escursione all’aria aperta ha ancor oggi non pochi cultori. I quali la mantengono in vita come possono, cioè stancamente: da epigoni della quarta (o quinta) generazione, e lo affermo con tutta la simpatia e il rispetto per la loro devota perseveranza. Solo pochi assidui frequentatori tentano di innestare stilemi più aggiornati nell’originario ceppo linguistico, invero alquanto vetusto, non necessariamente ricorrendo alla mediazione salvifica della fotografia.

Si capisce il persistere della pittura di paesaggio, radicata anche sul piano del gusto amatoriale, nella terra di Giovanni Fattori, di Silvestro Lega e di Telemaco Signorini, dove fiorì e si consolidò, tra il caffè Michelangiolo, a Firenze, e la costa livornese di Castiglioncello e dintorni, la gloriosa scuola consacrata alla virtù formatrice della macchia. Fu un’invenzione morfologica, la macchia, contemporanea e contigua ma sostanzialmente diversa – perché fondata sulla ratio costruttiva del disegno, dunque sui presupposti irrinunciabili della solidità d’impianto e dell’integrità di visione – dall’aereo e aleatorio tocco impressionista, che giunse fino alla macerazione o al dissolvimento della forma, mirando soprattutto a restituire sulla tela la molteplice e cangiante rilevazione della luce, catturata ad un preciso momento del suo manifestarsi fenomenico, in rapporto alla peculiarità dell’ambiente fisico e alle relative condizioni atmosferiche.

Pratali non è stato e presentemente non è solo un paesaggista. Gli stessi suoi attuali interessi pittorici, pur concentrati sul paesaggio e sue derivazioni tipologiche, non vi si esauriscono. Egli dipinge, intanto, anche corpose e alquanto sapide nature morte, a soggetto preferibilmente agreste di girasoli, di pannocchie, di frutta. Nature morte che se devo dire come la penso, nonché rarefatte reliquie di “vita silente”, per la loro tormentata morfologia appaiono estese e giustamente accidentate visioni assimilabili a paesaggi, sia pure di specie particolare. Sono una sorta di sineddoche o di riduzione esemplificata del paesaggio. È come se lo sguardo del pittore mettesse a fuoco, ogni volta uno spaccato di natura: primi e primissimi piani, insomma, inquadrature sul dettaglio che svelano i caratteri costitutivi dell’insieme. Come dire la parte per il tutto: un girasole sta per la terra che lo sostiene e lo nutre, sta per la piantagione che lo include, sta per il cielo che lo sovrasta e lo inonda di luce. Tanto più che sia le nature morte sia i paesaggi veri e propri sono eseguiti con la stessa tecnica: la spatola manovrata con energica scioltezza, e hanno la medesima consistenza plastica degli impasti, spalmati e quasi modellati con evidente abbandono all’eccitazione sensuale della fluida materia, poco o niente concedendo alla sua piacevolezza epiteliale.

Oltre alle nature morte, nel repertorio di Pratali compaiono inserti grafici e pittorici d’altra impostazione stilistica e giustificazione espressiva, rispetto ai dipinti del versante più battuto. Sono per lo più materiali di laboratorio, per così dire: ricerche settoriali e divagazioni dettate dall’estro immaginoso e dall’effimera curiosità o da personali esigenze di studio del segno, del colore, della forma, esercizi che si esauriscono allo stadio dell’abbozzo e del preludio, ma possono anche sfociare in serie adeguatamente approfondite e sviluppate. Talvolta si tratta di opere eseguite per una specifica destinazione, poniamo l’illustrazione di un libro, o per dar corso visivo all’onda delle sensazioni e dei pensieri sollevata da un accadimento esterno di particolare coinvolgimento emotivo. È questo il caso dei cicli tematici ispirati a problematiche di forte incidenza sociale, quali le piaghe della droga o dell’Aids in tempi recenti, i guasti se non gli orrori dell’imperialismo (la “tigre di carta”, il “gigante dai piedi d’argilla” ) e il catalogo di deprivazioni indotte dalla “società repressiva” negli anni della contestazione studentesca, che Pratali visse attivamente a Pisa, uno dei centri cruciali del Sessantotto, e da pittore trattò con generoso e certo anche vulnerabile puntiglio.

Infine, gli inserti eteronomi o divergenti possono essere il seguito pressoché omografo o la riproposta in una nuova chiave di temi e di linguaggi indagati, ma evidentemente non esauriti, nelle trascorse stagioni. Situazioni aperte, dunque, suscettibili di riprese e variazioni. Pratali ha avuto ed ha di questi ritorni di fiamma, che asseconda senza complessi. Evidentemente non considera disdicevole o indice di discontinuità muoversi, per certi tratti di strada, su più terreni, quando ne avverta il bisogno per una qualsivoglia ragione, che può anche essere il solo desiderio o il piacere di farlo. Il contrario di quel che accade alla generalità dei pittori del nostro tempo, per i quali il rispetto della monovalenza è prescrizione vincolante, molto spesso dettata soprattutto dalla preoccupazione di salvaguardare la riconoscibilità della cifra stilistica personale faticosamente conquistata sul mercato.

Si dà il caso che Pratali operi in posizione marginale nel cosiddetto sistema dell’arte i cui meccanismi gli sfuggono o comunque non lo coinvolgono, pur conoscendone il funzionamento. Del resto, l’esercizio della pittura è per lui importante ma non esaurisce la sua esigenza. La sua giornata è riempita anche da altri impegni e interessi che egualmente lo assorbono e lo gratificano. Per questo può permettersi fughe o evasioni anche fantastiche, come le sue Isole misteriose o “non luoghi” del sogno e dell’utopia, mentre dipinge a sfaccettatura prismatica cascine e covoni e maggesi e campi impaludati che rimandano a un sentimento arcaico della natura, a dir poco improbabile nell’era della tematica e della virtualità. Il fatto è che egli agisce senza calcolo o strategie funzionali alla redditività del mercato, in vista del quale sarebbe consigliabile mantenere una linea di ricerca conseguente e irreversibile, sicché con piena ed eguale libertà di movimento dà corso alle proiezioni dell’immaginario, nella nicchia del proprio studio, mentre cerca la congruità della visione figurativa quando si reca nella campagna intorno casa, a riprendere un angolo di paradiso praticabile.

Artista dal volto molteplice, dunque, l’amico Pratali. Vero è che furono paesaggi le sue prove d’esordio, ai primi anni Sessanta, quando fu avviato giovanissimo alla pratica dei pennelli dal conterraneo Amos Bernardini (1911-1972), un considerevole pittore di formazione autodidatta, in quell’ epoca attivo nell’ambito generoso della moderna tradizione figurativa toscana nella quale aveva ritagliato un proprio spazio, con una certa sincerità d’accento tra drammatico e lirico, espressa soprattutto nell’irruenza con cui tempestava di segni fulminei la tela, componendo immagini quanto mai mosse e persino, talvolta, come terremotate.

Senza dubbio è da ricercare in quelle frequenti escursioni / immersioni giovanili nell’ambiente naturale, compiute appunto in compagnia del Bernardini e sempre alla caccia di interessanti spunti paesistici, la scaturigine dell’amore di Pratali per i declivi selvosi, gli uliveti, gli acquitrini pedemontani, gli scorci campestri e le vedute urbane del “nato borgo selvaggio” che riconosciamo nelle tavole di questo libro. Amore originario ed esaltante, mai smentito o in qualche modo incrinato dal disincanto, anzi al presente confermato da una pittura la cui sostanza fisiologica appare intrisa di umori naturalistici, che la collocherebbero nel solco della tradizione rappresentativa toscana di cui abbiamo detto, se non fosse restituita con tale veemenza da tradire le proprie radici, risultando alla fine recuperata a un’ estrema, e intendo residuale, vitalità. Si noterà, en passant, come la conduzione nervosa e quasi stenografica del ductus, addirittura parossistica e al limite del groviglio informale nei dipinti degli ultimi anni, rimandi in prima istanza alla matrice del maestro Bernardini, beninteso innestata su un substrato materico di altra e più evoluta sensibilità, dietro la quale si avverte il bagaglio visivo della sua generazione. Ho appena usato l’immagine leopardiana del borgo selvaggio, a proposito del paese natio di Pratali. Debbo precisare che si tratta soltanto di un topos letterario, cui non corrisponde una situazione di reale selvatichezza del luogo, e implicitamente della gente, di cui stiamo parlando. Ossia di Buti, l’antico e civilissimo borgo incastonato nel “monte per che i Pisan veder Lucca non possono” , sul versante che guarda alla pianura già impaludata del Bientina.

In quella terra dove ebbe i natali Francesco Di Bartolo ( il Buti, appunto: primo commentatore della Divina Commedia ), non mancano le testimonianze storiche attestanti la continuità di una notabile tradizione culturale, nel corso dei secoli. Non si spiegherebbe, altrimenti, la presenza di una villa medicea, di numerosi palazzi gentilizi, d’un delizioso palazzo ottocentesco oggi restituito all’originaria integrità, d’un castello in stile neogotico per il quale, invece, sarebbe necessario un radicale restauro. Né manca in loco il contraltare popolare a quei visibili monumenti della cultura “alta”. Ricordo che a Buti ancora nel secondo dopoguerra risuonava la parola cantata dai maggianti, durante le opre stagionali nei campi, e che gli affabulatori animavano di leggende e di fole le veglie invernali intorno al focolare e quelle estive nelle corti e sulle aie, mentre i poeti estemporanei volgevano in versi in ottava rima, per motteggi, rimbrotti e tenzoni, gli accadimenti della vita quotidiana. Molte suggestioni da questa letteratura illetterata – non solo orale, che esiste un considerevole deposito di fonti scritte – travolta ma non cancellata dalla modernizzazione, devono aver seguitato ad alimentare, sedimentate nella memoria, l’immaginario di Pratali, se della lingua, dei costumi, del patrimonio sapienzale e poetico, della cultura materiale del suo paese, e contestualmente del territorio pisano, egli è divenuto raccoglitore provveduto e appassionato studioso, autore di ricerche e pubblicazioni che non sono passate inosservate agli specialisti, e costituiscono un contributo importante alla conoscenza e alla conservazione di quei valori sommersi, ma anche alla loro riscoperta utilmente spendibile sul piano didattico e della rielaborazione creativa. Sarà opportuno osservare che l’interessamento di Pratali al folklore di casa sua è stato favorito dalla circostanza di aver egli accesso a rari testi e documenti custoditi presso la biblioteca della Sapienza ( così si chiama l’università pisana ), dove lavora da lungo tempo, essendo per questo pratico di ricerche d’archivio e quotidianamente a contatto con letterati e studiosi di varie discipline.

Il mestiere dell’esploratore cartaceo, dunque, ha alimentato questa del conoscitore di cose locali e ha certamente stimolato un’altra, più inclusiva passione da lui coltivata in parallelo all’esercizio della pittura: quella del curioso scopritore e, in parte, del collezionista di libri, stampe, documenti che testimoniano, a vario titolo e con diverso grado di rappresentatività, la costellazione dei suoi interessi. In primis, ovviamente, l’interesse per l’arcipelago dell’arte del ventesimo secolo, segnatamente per i pittori che Pratali ha frequentato con maggiore assiduità e con i quali ha avuto proficue relazioni professionali e spesso ha stretto rapporti di sincera amicizia.

Ricordo il generoso “canonicus milanensis”, Pietro Annigoni, artista impegnato in una battaglia solitaria, e ancor poca riconosciuta, per affermare la grande continuità della grande tradizione pittorica occidentale fondata sul disegno, negli anni trionfali dell’astrattismo e dell’informale; il versatile e persino eclettico Primo Conti, che ha attraversato un secolo di vicende artistiche, dagli esordi futuristici al periodo novecentista e alla stagione neofigurativa del secondo dopoguerra; il nostro comune amico Gianni Dova, protagonista dell’avanguardia nucleare a Milano nei primi anni Cinquanta, surrealista sui generis con il lungo ciclo delle figure totemiche, pittore di meraviglie versicolori nelle celebrazioni della natura bretone nel suo ultimo periodo ispirato al simbolismo di Pont-Aven; l’altro comune amico Beppe Serafini, un uomo dall’animo candido ma non ingenuo, inimitabile pittore di Montelupo Fiorentino, nelle cui manifatture aveva lungamente lavorato come ceramista decoratore, intanto che componeva in solitudine le stazioni della sua visionaria epopea contadina e popolare. Infine l’avvocato Silvano Belcari, pittore di luminose scene maliziosamente ingenue, di appartenenza naive, che ricordo per ultimo perché con Pratali fece sodalizio nell’ultimo periodo della propria esistenza.

È, come si vede, un ventaglio di personalità diversamente orientate quanto a linguaggi e tendenze pittoriche. Averle conosciute e frequentate è stato senza dubbio importante per Pratali, sul piano umano e delle corrispondenze di sensibilità che si stabiliscono in questi casi, ma non si può dire che abbiano inciso in modo significativo sulle sue scelte espressive, come dimostrano le opere qui pubblicate: i paesaggi composti a tassellata della materia stesa a colpi di spatola, nei quali Pratali recupera e rielabora, come si accennava, i modi linguistici da lui enucleati nell’aìetà formativa, e i cicli per così dire divaganti, svincolati in tutto o in parte dai referenti oggettivi e risolti in chiave astratta, a declinazione ora lirica ora fantastica. Solo poche immagini documentano in queste pagine, incentrate sui paesaggi recenti, la gran quantità di quelle variazioni eseguite in un ventennio di lavoro, a far data dal ’68.

Una scorsa ai titoli basta a dichiararne i contenuti ideali e le finalità espressive: Studio per un monumento (1968 ), Anna Frank. Eppure io non credo che gli uomini siano cattivi (1969), Manifestazione (1970), Perché la droga (1978), Monumento dedicato ai caduti dell’amore (1980). Sono enunciati espliciti che fanno subito clima d’epoca. Attestano il desiderio di un giovane pittore di farsi testimone dei nodi e delle inquietudini del suo tempo. Importante è constatare come nel pittore vi fosse la consapevolezza di assolvere il dovere della testimonianza nei modi propri dell’arte, non illustrando retoricamente una tematica impegnata. Bisogna riconoscere che questi dipinti risultano efficacemente evocativi proprio perché sono affidati a una sintassi minima, giocata essenzialmente sulla potenza strutturale del nero che fissa l’impalcatura della forma.

In altri momenti, che qui non compaiono, Pratali affrontava con un fraseggio più pungente e quasi rabbioso i medesimi soggetti, ricorrendo a spigolose figure sommariamente delineate al centro di situazioni visive segnate da oggetti e scritte emblematiche, sin troppo eloquenti nella loro sgradevolezza, cui concorreva anche l’acidità dei colori, sicche l’immagine si caricava di un’espressività molto vicina al linguaggio immediato della comunicazione murale, del graffitiamo metropolitano tipico della contestazione giovanile. C’è stato anche questo eccesso diciamo brutalista, poi, rientrato, nella tastiera espressiva di Pratali, per quanto nell’insieme della sua opera egli appaia assai poco incline alla blandizia della materia ben stemperata e alla graziosità del colore raffinato, anche dove è maggiore il controllo formale. In effetti Pratali è portato all’esecuzione rapida, gestuale e irriflessiva, a rischio di frizioni e sgrammaticature, insofferente dell’elaborazione meticolosa che comporta tempi lunghi e frequenti pause di ripensamento. Per questa ragione ha privilegiato la tecnica della spatola sulle altre che avrebbe potuto usare sui paesaggi e nelle nature morte recenti. La spatola gli permette di imprimere senso costruttivo all’immagine senza costringere la materia \ colore nella griglia del disegno, che ne pregiudicherebbe la vibrazione e comunque si irrigidirebbe spazialmente la partitura. Cosa che non a caso si verifica, mi sembra, proprio dove il disegno è implicito nel soggetto.

Mi riferisco, in particolare, agli scorsi di paese e ai maestosi cascinali, che risultano intonati ad una certa gravità, nonostante siano alleggeriti dalla scomposizione paradivisionistica delle estese superfici, le quali si articolano in volumi assai adatti, per l’incastro e la sequenza dei piani architettonici, a rispecchiare l’alterno e molto scenografico gioco della luce e dell’ombra.

Del resto, Pratali stesso sembra orientato a vieppiù velocizzare l’esecuzione, con esiti considerevoli laddove i soggetti meglio si presentano al balletto ritmico della spatola, che depone più o meno minuti tasselli di materia \ colore. Su tutti segnalo i paesaggi con cipressi battuti dal vento, composizioni originali anche sotto il profilo del taglio visivo. Negli ultimi dipinti, anzi, il processo formatore è divenuto addirittura fulminante, come una scrittura automatica eseguito facendo scorrere la spatola direttamente nel corpo della materia, che ne risulta plasmata più che dipinta, sicche l’immagine quasi si perde nel suo fluire morbido e filamentoso, come riflessa in uno specchio di luce.


NICOLA MICELI




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